G.A.M. Gioventù Ardente Mariana
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NANNINA HAMILTON

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Messaggio Da tina Ven 13 Apr 2012, 10:05




VORREI PARLARE A TUTTI DELLA MADONNA





Una bimba, dagli occhi di un azzurro tenero come il fiordaliso, nasce con una malattia molto rara: una dilatazione anormale dei vasi linfatici e sanguigni. I medici le danno pochi anni di vita. Nannina (così si chiama quella bimba) vive quattordici anni, subisce quaranta interventi chirurgici e alla sera di giorni particolarmente dolorosi ha la gioia sorridente di esclamare: « Grazie, mio Dio, grazie di tutto ».
Quella fanciulla è riuscita a convertire sua mamma, Margherita Hamilton.

Ecco Nannina

Un mese prima della nascita di Nannina, suo padre Jim fu ucciso in un incidente d’auto. Tre mesi dopo io cominciai a scoprire l’eredità che aveva lasciato alla sua bimba: la stessa finezza di lineamenti, la spontaneità del sorriso (con cui Jim conquistava gli amici), un luminoso coraggio e il dono della simpatia.
Jim ed io ci volevamo molto bene, ma eravamo sempre squattrinati. Oggi non mi vengano a dire che sono povera. Un giorno Jim trovò un impiego a 300 miglia a nord di casa nostra. Avevamo tutti e due l’impressione che l’avvenre si facesse brillante, più vasto di quanto l’avevamo sognato.
Jim partì un lunedì mattina, alla fine di gennaio. Il venerdì pomeriggio arrivò il telegramma.
Ero seduta al sole, appoggiata al muro di casa. Nessun presentimento mi avvertiva che il mio mondo era sul punto di crollare. Son sicura che anche l’ultimo mattino della fine del mondo sarà un mattino ordinario come tutti gli altri. Gli uomini si alzeranno come al solito, faranno pranzo e attenderanno ai loro affari, come facevo io quel pomeriggio. Papà stava mettendo in ordine il recito vicino ai muri. Un colpo di campanello mi fece sussultare. Presi in mano il telegramma che la mamma mi tese, ma non l’aprii subito. Avevo sempre avuto paura dei telegrammi.
Papà vide il mio viso inquieto e mi si avvicinò:
— Vuoi che l’apra io, Margherita? Vuoi che ti dica io ciò che c’è scritto dentro?
Feci cenno di no con la testa e stracciai la busta. Lì per lì non ci capii nulla, poi seppi tutto. L’impossibile era accaduto: Jim, il mio caro Jim, era morto!

* * *

— Quando nacque la mia bambina, mi trovavo in un ospedale cattolico. Prima di allora io non ero mai stata in un ospedale cattolico, e rimasi un po’ intimidita dall’aspetto delle suore in abito bianco e nero.
Era notte quando chiesi di poter vedere la mia bambina, ma qualche cosa nell’atteggiamento dell’infermiera mi fece sospetto. Le stelle parevano scintillare sulla finestra vicino al mio letto. « Stelle, scintillanti stelle, — mormorai — che la mia creatura sia tutto ciò che ho sognato ». Mi accorsi che il vento scuoteva le foglie leggere di un melo. Era vicina l’alba. Sentii per la prima volta che Dio mi era accanto e chiusi gli occhi.
Al mattino venne l’infermiera: — Il dottore vi vuole parlare — mi disse.
Frenai la paura che sentivo salire in me.
Il dottore venne, mi prese le mani e me le tenne strette fra le sue.
— Signora Hamilton, — mi disse con una intonazione benevola di voce — la vostra bambina è nata in uno stato estremamente raro. Avrà bisogno di cure mediche continue — abbassò la voce — se riesce a vivere.
Fece una pausa.
— E se vive, forse non potrà mai camminare.
Tutto ciò mi parve un incubo terribile.
La voce del dottore continuò:
— Aspetteremo alcuni giorni per vedere come vanno le cose. Per il momento è meglio senza dubbio che voi non vediate la bambina.
Bruscamente mi ribellai:
— Voglio vedere la mia bambina, subito.
Il dottore mi batté sulla mano.
— Bene. Ve la porteremo. Ma solo per un minuto.
Tenni gli occhi fissi sulla porta finché si fece vedere un’infermiera che portava un soffice pacchetto rosa. Non si avvicinò troppo al mio letto.
— Bisogna tenere la bimba in una certa maniera — si scusò.
Scrutai tutti i lineamenti della piccola creaturina paffuta per fissarmeli nella memoria. Gli occhi erano di un azzurro porcellana sorprendente e i capelli biondissimi già strapazzati erano indisciplinati come i miei. Tutta la mia anima gridava dal desiderio di stringersi al cuore quel minuscolo pacchetto rosa, di sentire che mia figlia viveva.
L’infermiera se ne andò: provai un senso di vuoto quasi intollerabile. Avrei voluto saper pregare, pregare veramente.
Una suora entrò nella sala e mi fece, al passaggio, un piccolo saluto amabile. Ero troppo intimidita per rispondere. I cattolici, pensavo, hanno sempre il sorriso sul volto.

* * *

Quel pomeriggio l’infermiera mi portò la bimba e posò quel pacchettino sul letto vicino a me. Mi disse che sarebbe ritornata dopo cinque minuti. Mi accorsi che si allontanava in fretta.
Decisi di chiamare la bimbetta col nome di Nannina.
C’era tanta calma nei suoi grandi occhi blu fissi su di me, che stentavo a credere che Nannina avesse appena qualche ora. Il suo visetto ovale, a forma di cuore, era disegnato perfettamente. Nessuno mi sorvegliava; adagio, sfilai le fasce ed esaminai Nannina. Provai orrore. Avrei giurato che due mani fredde di ghiaccio mi serrassero il cuore e dovetti lottare contro la nausea che mi veniva alle labbra.
I piedi e le gambe di Nannina erano enormi, gonfi, violacei e non avevano nulla di umano. Erano grotteschi, spaventosi. La sua mano sinistra, voluminosa e sformata, sembrava un’abominevole caricatura.
Come la bimba poteva sopravvivere con un corpo simile?
Per un brevissimo istante mi domandai se non era meglio abbandonarla e lasciarla cadere, così per caso, dal letto sul pavimento.
Ripresi in braccio quel fagottino e, una volta ancora, riguardai il viso della bimba. Un’ultima volta — pensai — tanto per ricordamene, prima di disfarmene.
I suoi occhi blu restarono posati su di me con fiducia. Erano chiari, raggianti; m’immaginai che fossero addirittura trasparenti e che filtrassero la luce del cielo.
Con un fiotto di lacrime strinsi al cuore quel corpicino. Era Nannina, la mia bambina. Mi misi a parlarle a voce bassa, baciai disperatamente la sua testolina ricciuta.
— Vedrai, Nannina, che ce la caveremo da sole. Tu ed io. Sempre insieme. L’infermiera venne a cercarmi e mi disse: — Il dottore vuol parlarvi subito, signora Hamilton.
Il dottore mi accolse amichevolmente.
— Signora Hamilton, — mi disse — ho ricevuto una comunicazione da vostra sorella. Ha telefonato da San Francisco per dire che verrà domani a prendervi. Informa inoltre che ha già trovato una clinica per la bambina.
Mormorai un grazie mentre il dottore mi guardava pensoso.
— A dire il vero, noi non ne sappiamo molto sul caso di vostra figlia. È un caso estremamente raro. È nata con una malformazione dei vasi sanguigni e linfatici che noi chiamiamo « linfoemangioma ». In termini semplici si tratta di uno sviluppo anormale dei vasi, una specie di tumore non maligno, capitemi bene, ma benigno e del tutto anormale. Noi non sappiamo come si produce né come trattarlo. I vasi sanguigni e linfatici sono anormali, considerevolmente ingrossati, ciò rende un intervento chirurgico assai difficile. Nel corso di una vita capita d’incontrare uno o due di questi casi. Per parte mia io non ne avevo mai visto.

Un angioletto

Andai a vedere la mia bambina; tirai via la coperta e un volta ancora la guardai. Dormiva profondamente. Le sue lunghe ciglia bionde, di seta, carezzavano la curva delle guance. Toccai col dito il suo visetto; si sarebbe detto di cera rosa e bianca.
Alla clinica Nannina parve migliorare. Tutte le domeniche, la nonna ed io andavamo a trovarla.
« I suoi occhi son blu come quelli degli scozzesi — diceva la nonna tutta felice, — Nota bene quello che ti dico: questa bimbetta diventerà qualcuna ».
Da una settimana all’altra mia sorella faceva vedere Nannina a un certo numero di dottori; nessuno osava dare speranze: « Niente da fare ». « Io consiglio di sorvegliare il caso e di aspettare ». « Non c’è nessun trattamento conosciuto ». E più di una volta brutalmente: « La bambina non potrà vivere a lungo ».
Dopo la prima settimana in clinica Nannina era diventata la beniamina di tutte le suore.
— Si direbbe un angioletto — mi disse la suora di turno, portandomela giù per la prima volta nel salottino invaso da sole. — Ha il volto e l’espressione di un angelo. È molto vicina al cielo; glielo si vede negli occhi.
E aggiunse:
— Dio l’ama molto, sappiatelo.
La suora disse questo con una confidente sicurezza, tanto che le diedi un’occhiata interrogativa:
— Forse perché è così sformata nel corpo, volete dire?
— No — la suora ebbe un dolce sorriso. — Tutto il contrario. Ricordatevi che è Dio che l’ha fatta così. E lui non fa mai nulla senza una ragione, senza delle buone ragioni. Noi non possiamo sempre conoscerle, ma non possiamo dargli atto. State certa che Nannina ha quaggiù una missione speciale. E Dio vi ama molto tutte e due. Poiché egli dona le croci pesanti a quelli che egli ama di più.
Trovai intanto impiego negli uffici di disegno dei cantieri navali di East Bay a Oakland, proprio di fronte alla clinica di Nannina, dall’altra parte della baia. Man mano che gli uomini venivano chiamati alle armi, avanzavo di occupazione e aumentavo di stipendio. Guadagnavo più denaro che in tutta la mia vita e lo mettevo da parte per Nannina.


Come il Signore le vuol bene !
Un giorno che avevo portato Nannina da uno specialista e che la risposta, come al solito, era stata negativa, condussi la macchina nel parcheggio sotterraneo di San Francisco e andai a fare fotografare Nannina: volevo che fosse la più bella foto, nello studio fotografico più chic della città.
Il direttore dello studio era uscito, ma una incantevole signorina si offrì di fare lei la foto. Tese le braccia per prendere Nannina. Istintivamente io indietreggiai.
— Posso tenerla io mentre voi prendete la foto? — chiesi.
La signorina sorrise e fece cenno di sì. Senza una parola dispose il gioco di luce. Nannina, tra le mie braccia, era tutto un sorriso e un cinguettio.
— Ho visto qui passare un mucchio di graziosissimi bimbi — mi confidò la signorina — ma questa bambina è una delle più stupende che io abbia mai visto. Diventerà una magnifica stella del cinema.
Era già notte quando riconsegnai Nannina alla suora. Essa cominciò a ninnarla dolcemente.
Ma quella sera, quando mia sorella Hazel venne a riprendersi l’automobile che mi aveva imprestato, ebbi una crisi di pianto. Buona e cara Hazel, solida come una fortezza! Mi disse lentamente: — Son sicura che Nannina ha una missione precisa da fare quaggiù. Io so che Nannina sarà per noi una grazia.
Andai in seguito nella clinica di un radiologo. Mentre si era nella sala d’aspetto una signora di una certa età si avvicinò a noi si chinò per guardare Nannina da vicino.
— Bellissima! — esclamò. — Non ho mai visto una creaturina tanto bella!
Il radiologo esaminò Nannina rapidamente, poi scosse la testa.
— Temo — disse — che i raggi X non le servano niente.
Posò dolcemente la sua mano sulla mia spalla.
— Riconducetela al nido. Vedete, non si può mai essere sicuri dello stato mentale di creaturine come queste.
Mi sentii cascare. Non avevo mai pensato alla possibilità che Nannina fosse colpita da malattia mentale.
— Jim, — dissi tra me al mio defunto marito — che fare adesso? Che dobbiamo farci? Dimmelo. E se tu non lo sai, chiedilo a Dio; tu sei con lui lassù.
Tornai difilato alla clinica. Di nuovo la suora prese Nannina dalle mie braccia senza informarsi dei risultati della visita medica. Guardando la piccina, mormorò improvvisamente:
— Come il Signore le vuol bene.


Una piccola voce bagnata di pianto

Intanto Nannina cresceva. Mi decisi a farla vedere da un dottore specialista delle malattie infantili, a Santa Cruz. La stesero dolcemente sul tavolato di marmo. Il dottore e una signora dall’aspetto importante, funzionaria in uno dei servizi di stato, si avvicinarono per osservarla. Nannina sorrise loro, prese la mano di quella signora e disse: « Voi siete gentile ». La donna si chinò e abbracciò Nannina.
In seguito portammo Nannina in un grande ospedale di San Francisco. La domenica seguente mi recai in città per farle una visita. Entrai nella sua stanza in punta di piedi, e la trovai seduta, col visetto sconfortato, che guardava dalla finestra. Voltò la testa e mi vide; restò un istante con gli occhi fissi e si mise a piangere dolcemente:
— Mamma! Mamma! — singhiozzava. — Non c’era più nessuno!
Mi resi conto dell’impressione schiacciante di vuoto che doveva aver provato Nannina nel trovarsi sola in mezzo a sconosciuti. Con le sue mani nelle mie le raccontai belle fiabe sugli animali della foresta. L’ora passò in fretta. Quando mi alzai per partire, Nannina mi strinse più forte:
— Siediti, mamma, siediti — e si mise a piangere.
Uscii senza guardare indietro. Ma tutta la notte intesi la piccola voce bagnata di lacrime: « Siediti, mamma, siediti ».
Ogni domenica andavo a trovarla e le portavo una bracciata di giocattoli. Nannina amava i giocattoli ma sembrava aver più piacere a regalarli ai fanciulli che la circondavano che a servirsene. Un pomeriggio il dottore telefonò per dire che l’indomani io potevo venire a prendere Nannina.
— Abbiamo ingessato la sua gamba sinistra — mi spiegò — per vedere se una specie di « di legatura cinese » potrà servire ad arrestare l’enfiagione. Tenetela stesa a letto fino a lunedì prossimo, poi riportatela all’ospedale e vedremo di togliere il gesso.


La carità è amore

Così, tra interventi chirurgici e tentativi di nuove cure, Nannina crebbe. E gli anni passavano; nannina si faceva fanciulla.
Mi venne offerto l’invito a farla curare in un ospedale di Santa Monica. Andai a dare un’occhiata: un imponente edificio bianco, cinto di fiori e di aiuole vellutate.
Entrando nella sala d consultazione, incontrai una gentilissima persona, la signorina Clark. Mi fece visitare le sale. Mi condusse in una piccola cappella. Entrammo in punta di piedi. La signorina Clark intinse le dita nell’acquasantino, si fece il segno della croce e s’inginocchiò. Io non sapevo che cosa fare e restai in piedi, imbarazzata. La cappella era piena di suore in preghiera; una specie di sacro raccoglimento alitava dappertutto. Provai uno strano mescolio di emozioni; da una parte mi sembrava d essere fuori posto: d’altra parte non avrei mai voluto staccarmene, mi sentivo come in casa mia.
Uscendo cercai di spiegarmi con la signorina Clark:
— Che bella chiesetta! Io non sono mai stata in una cappella cattolica eppure non mi sono sentita estranea.
— Non mi sorprende — mi rispose la signorina guardandomi con un tenue sorriso. — Lì ci trovate sempre un eccellente Amico.
— Un amico? — interloquii sorpresa.
— Sì, il vostro migliore Amico. È sempre lì. Quando voi venite all’ospedale, dovreste entrare un istante per parlargli. Gli fareste piacere.
— Davvero? — Non ero sicura di far piacere a Dio, ma sapevo che ciò faceva ben piacere a me.
Nannina fu esaminata, fotografata, passata all’esame dei raggi X. Ad ogni visita mi stupivo come le suore ed il personale la trattavano affettuosamente. Avevo ancora troppa timidezza per parlare con le suore. Un giorno mi feci coraggio. Ne avvicinai una: — Sorella, — le dissi — potrei parlarvi?
— Certo. — I suoi occhi si illuminarono. — Ma voi siete la mamma di Nannina? — mi chiese.
— Sì. Volevo soltanto dirvi come vi sono riconoscente per la cortesia con cui tutti trattano la mia figliuola. Voi vi disturbate tutte come se Nannina fosse qualcuna di eccezione e non una malata accoltà qui all’ospedale per carità.
La suora si mise a ridere con un piccolo squillo argentato.
— Ma la carità è amore.
Dovetti avere il viso stupefatto perché la suora sorrise ancora, dolcemente:
— Ma è chiaro. Un malato ricevuto per carità è un malato che noi curiamo per amore, non per il denaro. L’amore non si paga, voi lo capite.
— È vero, sorella. Bisogna proprio che amiate Nannina per trattarla come fate voialtre.
La suora mi strinse la mano:
— Noi amiamo molto Nannina, perché Dio l’ama molto. Dio dà le croci più pesanti a coloro a cui vuol più bene.
Sentii come un urto nel mio cervello. In verità Dio era morto per noi. Mi precipitai in cappella, caddi in ginocchio, alzai gli occhi verso il crocifisso, che sormontava l’altare:
— Mio Dio, vi prego, aiutate tutti noi a saper comprendere quanto voi ci amiate. Soprattutto aiutate Nannina e me a conoscere il vostro amore.
Fu la prima preghiera che io avessi mai fatta con la certezza che Dio mi avrebbe risposto.


Dio ha desiderio di me, mamma !
Un giorno Nannina mi mostrò un rosario che una suora le aveva regalato.
«Com’è bello!», esclamai, e le infilai quella corona attorno al collo. Nannina se la levò subito:
«Un rosario non è fatto per metterselo al collo - mi spiegò - Lo si tiene in mano e si dicono le preghiere. A ogni grano si dice una preghiera alla Madonna, ed ella ti racconta tutta la storia del suo Figliuolo Gesù».
Poco tempo dopo, Nannina subì un’altra operazione. Durante la convalescenza, quando arrivavo all’ora della visita, la trovavo spesso assorta nella lettura di un piccolo catechismo che un’infermiera le aveva dato. Non mi fece meraviglia che un giorno Nannina mi dicesse:
«Mamma, voglio farmi cattolica».
«Ne hai proprio desiderio, Nannina?».
«È Dio che ha desiderio di me, mamma. - Alzò gli occhi, quei suoi meravigliosi occhi blu porcellana e il suo volto si illuminò di sorriso: - è ciò che più di tutto voglio al mondo.
Nannina fu battezzata il mattino stesso del suo nono compleanno. Il giorno dopo, alle otto, Nannina fece la prima Comunione. Io non dormii quella notte. Passai parte della sera precedente a preparare il vestito di Nannina. Lavai e stirai il suo abito di battesimo. Albeggiava appena quando ci recammo all’ospedale. La cappellina era piena da straripare. Con un religioso rispetto assistetti alla Messa, per la prima volta in vita mia. Non ci capivo nulla, ma notai che il prete, vestito di magnifici paramenti, ci volgeva le spalle quasi tutto il tempo e parlava con Dio. Con precauzione la signorina Clark condusse Nannina alla balaustra; la vidi inginocchiarsi simile a un angelo dalla capigliatura d’oro. Osservai la mia bambina quando tornò a posto, con gli occhi chini sotto il velo bianco e le mani giunte in preghiera. Poi mi misi a piangere. Erano le prime lacrime di gioia che avessi mai versato.
Qualche tempo dopo fui battezzata anch’io; e mi accostai alla balaustra a ricevere la Comunione insieme a Nannina.
Corona di gloria
Col crescere degli anni la malattia peggiorava. Nannina stava salendo il suo calvario. Subì quaranta interventi chirurgici; le amputarono le gambe. La fanciulla non perdette il suo luminoso sorriso.
Un giorno (Nannina aveva tredici anni) la portai come al solito dal dottore dell’ospedale di Santa Monica. Si scambiarono frasi scherzose. Notai che dopo di averla pesata, il dottore tornò al suo scrittoio, consultò la cartella di Nannina e di nuovo la volle ripesare.
Uscii un poco in sala d’aspetto. Quando il dottore mi richiamò, Nannina si mise a ridere:
«Indovina, mamma - mi disse - Il dottore vuole che io dimagrisca.
«Sì, signora Hamilton - disse il dottore tendendomi un foglio di carta. - Ecco il regime di dieta che Nannina deve seguire molto scrupolosamente, fino alla sua prossima visita».
«Ma se non ha nemmeno un grammo di grasso, dottore! È come un uccellino spolpato».
«Lo so. Ma il suo peso aumenta. Bisogna sapere se l’alimentazione ne è la causa. È importante».

Il suo peso aumenta!
Mio Dio! La malattia invade il corpo!
Nannina seguì la dieta alla lettera. Ma l’ago della bilancia continuava a salire. Notai che il ventre e i fianchi di Nannina si gonfiavano. La parte superiore del corpo restava ancora fragile e delicata, ma la parte inferiore ingrossava regolarmente. Fu necessario rivestire Nannina con una gonna enorme.
Il 7 giugno 1956, a quattordici anni di età, nel giro di pochi minuti, Dio chiamò a sé Nannina.
La sera prima si addormentò, poi tentò di leggere ad alta voce. Svaniva. Impressionata, io andai a cercare l’acqua di Lourdes.
«Te ne prego, mamma, - mi disse Nannina - non servirtene per tenermi quaggiù in terra. Io voglio ciò che Dio vuole».
Mi gettò le braccia al collo:
«Mamma, io t’amo tanto. Tu sai: ci fu qualche momento che mi pareva di partire per il cielo e non volevo ancora andarmene. Ho tanto ancora da fare. Vorrei parlare a tutti della Madonna di Lourdes».
Restammo a guardare la televisione. L’indomani mattina, verso le 10,30, morì in pochissimi minuti.
Quel giorno stesso scrissi queste poche righe a sfogo del mio dolore:
«Gesù, ricevila gentilmente. Oggi era tanto stanca. Tentò molto di nascondere il suo dolore e di frenare le lacrime. Tu sai quanto ha sofferto, o Signore, e come sempre ti ha amato. Tu sai quanti terribili dolori sapeva nascondere con un sorriso. Per cui, ricevila gentilmente, o Gesù. Son sicura che tu le dirai che la croce che saputo portare così pazientemente è divenuta la sua corona di gloria».

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