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La messa in piazza San Pietro per la conclusione dell'Anno sacerdotale
G.A.M. Gioventù Ardente Mariana :: IL MOVIMENTO GAM :: Il Papa :: messaggi del Santo Padre Benedetto XVI
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La messa in piazza San Pietro per la conclusione dell'Anno sacerdotale
Nei sacerdoti l'audacia di un Dio vicino
Il prete non è semplicemente il "detentore di un ufficio": è colui che parla in nome di Cristo, pronunciando parole "che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui". Per questo il Papa ha chiesto con insistenza "perdono" per tutte le occasioni in cui il compito presbiterale di manifestare "la premura di Dio a vantaggio dell'uomo" è stato stravolto e trasformato nel suo contrario, come è avvenuto nel caso degli abusi sessuali ai danni dei piccoli. Lo ha fatto venerdì mattina, 11 giugno, durante l'omelia della messa celebrata in piazza San Pietro a conclusione dell'Anno sacerdotale.
Cari confratelli nel ministero sacerdotale,
Cari fratelli e sorelle,
l'Anno Sacerdotale che abbiamo celebrato, 150 anni dopo la morte del santo Curato d'Ars, modello del ministero sacerdotale nel nostro mondo, volge al termine. Dal Curato d'Ars ci siamo lasciati guidare, per comprendere nuovamente la grandezza e la bellezza del ministero sacerdotale. Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell'assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione - parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente "ufficio", ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua - questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola "sacerdozio". Che Dio ci ritenga capaci di questo; che Egli in tal modo chiami uomini al suo servizio e così dal di dentro si leghi ad essi: è ciò che in quest'anno volevamo nuovamente considerare e comprendere. Volevamo risvegliare la gioia che Dio ci sia così vicino, e la gratitudine per il fatto che Egli si affidi alla nostra debolezza; che Egli ci conduca e ci sostenga giorno per giorno. Volevamo così anche mostrare nuovamente ai giovani che questa vocazione, questa comunione di servizio per Dio e con Dio, esiste - anzi, che Dio è in attesa del nostro "sì". Insieme alla Chiesa volevamo nuovamente far notare che questa vocazione la dobbiamo chiedere a Dio. Chiediamo operai per la messe di Dio, e questa richiesta a Dio è, al tempo stesso, un bussare di Dio al cuore di giovani che si ritengono capaci di ciò di cui Dio li ritiene capaci. Era da aspettarsi che al "nemico" questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti - soprattutto l'abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell'uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere che nell'ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l'autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli della vita. Se l'Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende. Ma si trattava per noi proprio del contrario: il diventare grati per il dono di Dio, dono che si nasconde "in vasi di creta" e che sempre di nuovo, attraverso tutta la debolezza umana, rende concreto in questo mondo il suo amore. Così consideriamo quanto è avvenuto quale compito di purificazione, un compito che ci accompagna verso il futuro e che, tanto più, ci fa riconoscere ed amare il grande dono di Dio. In questo modo, il dono diventa l'impegno di rispondere al coraggio e all'umiltà di Dio con il nostro coraggio e la nostra umiltà. La parola di Cristo, che abbiamo cantato come canto d'ingresso nella liturgia, può dirci in questa ora che cosa significhi diventare ed essere sacerdoti: "Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore" (Mt 11, 29).
Celebriamo la festa del Sacro Cuore di Gesù e gettiamo con la liturgia, per così dire, uno sguardo dentro il cuore di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano. Sì, il suo cuore è aperto per noi e davanti a noi - e con ciò ci è aperto il cuore di Dio stesso. La liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto di Dio quale pastore degli uomini, e in questo modo ci manifesta il sacerdozio di Gesù, che è radicato nell'intimo del suo cuore; così ci indica il perenne fondamento, come pure il valido criterio, di ogni ministero sacerdotale, che deve sempre essere ancorato al cuore di Gesù ed essere vissuto a partire da esso. Vorrei oggi meditare soprattutto sui testi con i quali la Chiesa orante risponde alla Parola di Dio presentata nelle letture. In quei canti parola e risposta si compenetrano. Da una parte, essi stessi sono tratti dalla Parola di Dio, ma, dall'altra, sono al contempo già la risposta dell'uomo a tale Parola, risposta in cui la Parola stessa si comunica ed entra nella nostra vita. Il più importante di quei testi nell'odierna liturgia è il Salmo 23 (22) - "Il Signore è il mio pastore" -, nel quale l'Israele orante ha accolto l'autorivelazione di Dio come pastore, e ne ha fatto l'orientamento per la propria vita. "Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla": in questo primo versetto si esprimono gioia e gratitudine per il fatto che Dio è presente e si occupa di noi. La lettura tratta dal Libro di Ezechiele comincia con lo stesso tema: "Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura" (Ez 34, 11). Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell'umanità. Non sono lasciato solo, smarrito nell'universo ed in una società davanti a cui si rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per il quale la mia vita conterebbe troppo poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo vedere, hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c'è un Dio solo. Ma tale Dio era lontano. Apparentemente Egli abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio unico era buono, ma tuttavia lontano. Non costituiva un pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era necessario occuparsi di Lui. Egli non dominava. Stranamente, questo pensiero è riemerso nell'Illuminismo. Si comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore. Questo Dio, però, aveva costruito il mondo e poi si era evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva un suo insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non interveniva, non poteva intervenire. Dio era solo un'origine remota. Molti forse non desideravano neppure che Dio si prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove la premura e l'amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l'essere umano è stravolto. È bello e consolante sapere che c'è una persona che mi vuol bene e si prende cura di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa di me. "Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me" (Gv 10, 14), dice la Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore. Dio mi conosce, si preoccupa di me. Questo pensiero dovrebbe renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri profondamente nel nostro intimo. Allora comprendiamo anche che cosa significhi: Dio vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo essere persone che, in comunione con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile nel concreto questa premura di Dio. E, riguardo all'ambito a lui affidato, il sacerdote, insieme col Signore, dovrebbe poter dire: "Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me". "Conoscere", nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. "Conoscere" significa essere interiormente vicino all'altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare di "conoscere" gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare con loro sulla via dell'amicizia di Dio.
Ritorniamo al nostro Salmo. Lì si dice: "Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome. Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza" (23 [22], 3s). Il pastore indica la strada giusta a coloro che gli sono affidati. Egli precede e li guida. Diciamolo in maniera diversa: il Signore ci mostra come si realizza in modo giusto l'essere uomini. Egli ci insegna l'arte di essere persona. Che cosa devo fare per non precipitare, per non sperperare la mia vita nella mancanza di senso? È, appunto, questa la domanda che ogni uomo deve porsi e che vale in ogni periodo della vita. E quanto buio esiste intorno a tale domanda nel nostro tempo! Sempre di nuovo ci viene in mente la parola di Gesù, il quale aveva compassione per gli uomini, perché erano come pecore senza pastore. Signore, abbi pietà anche di noi! Indicaci la strada! Dal Vangelo sappiamo questo: Egli stesso è la via. Vivere con Cristo, seguire Lui - questo significa trovare la via giusta, affinché la nostra vita acquisti senso ed affinché un giorno possiamo dire: "Sì, vivere è stata una cosa buona". Il popolo d'Israele era ed è grato a Dio, perché Egli nei Comandamenti ha indicato la via della vita. Il grande Salmo 119 (118) è un'unica espressione di gioia per questo fatto: noi non brancoliamo nel buio. Dio ci ha mostrato qual è la via, come possiamo camminare nel modo giusto. Ciò che i Comandamenti dicono è stato sintetizzato nella vita di Gesù ed è divenuto un modello vivo. Così capiamo che queste direttive di Dio non sono catene, ma sono la via che Egli ci indica. Possiamo essere lieti per esse e gioire perché in Cristo stanno davanti a noi come realtà vissuta. Egli stesso ci ha resi lieti. Nel camminare insieme con Cristo facciamo l'esperienza della gioia della Rivelazione, e come sacerdoti dobbiamo comunicare alla gente la gioia per il fatto che ci è stata indicata la via giusta della vita.
C'è poi la parola concernente la "valle oscura" attraverso la quale il Signore guida l'uomo. La via di ciascuno di noi ci condurrà un giorno nella valle oscura della morte in cui nessuno può accompagnarci. Ed Egli sarà lì. Cristo stesso è disceso nella notte oscura della morte. Anche lì Egli non ci abbandona. Anche lì ci guida. "Se scendo negli inferi, eccoti", dice il Salmo 139 (138). Sì, tu sei presente anche nell'ultimo travaglio, e così il nostro Salmo responsoriale può dire: pure lì, nella valle oscura, non temo alcun male. Parlando della valle oscura possiamo, però, pensare anche alle valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona umana deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì, Signore, nelle oscurità della tentazione, nelle ore dell'oscuramento in cui tutte le luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché possiamo essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché possiamo mostrare loro la tua luce.
"Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza": il pastore ha bisogno del bastone contro le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano il loro bottino. Accanto al bastone c'è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore, il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l'uso del bastone può essere un servizio di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare l'eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo diventare il vincastro del pastore - vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare su sentieri difficili e a seguire il Signore.
Alla fine del Salmo si parla della mensa preparata, dell'olio con cui viene unto il capo, del calice traboccante, del poter abitare presso il Signore. Nel Salmo questo esprime innanzitutto la prospettiva della gioia per la festa di essere con Dio nel tempio, di essere ospitati e serviti da Lui stesso, di poter abitare presso di Lui. Per noi che preghiamo questo Salmo con Cristo e col suo Corpo che è la Chiesa, questa prospettiva di speranza ha acquistato un'ampiezza ed una profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole, per così dire, un'anticipazione profetica del mistero dell'Eucaristia in cui Dio stesso ci ospita offrendo se stesso a noi come cibo - come quel pane e quel vino squisito che, soli, possono costituire l'ultima risposta all'intima fame e sete dell'uomo. Come non essere lieti di poter ogni giorno essere ospiti alla mensa stessa di Dio, di abitare presso di Lui? Come non essere lieti del fatto che Egli ci ha comandato: "Fate questo in memoria di me"? Lieti perché Egli ci ha dato di preparare la mensa di Dio per gli uomini, di dare loro il suo Corpo e il suo Sangue, di offrire loro il dono prezioso della sua stessa presenza. Sì, possiamo con tutto il cuore pregare insieme le parole del Salmo: "Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita" (23 [22], 6).
Alla fine gettiamo ancora brevemente uno sguardo sui due canti alla comunione propostici oggi dalla Chiesa nella sua liturgia. C'è anzitutto la parola con cui san Giovanni conclude il racconto della crocifissione di Gesù: "Un soldato gli trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua" (Gv 19, 34). Il cuore di Gesù viene trafitto dalla lancia. Esso viene aperto, e diventa una sorgente: l'acqua e il sangue che ne escono rimandano ai due Sacramenti fondamentali dei quali la Chiesa vive: il Battesimo e l'Eucaristia. Dal costato squarciato del Signore, dal suo cuore aperto scaturisce la sorgente viva che scorre attraverso i secoli e fa la Chiesa. Il cuore aperto è fonte di un nuovo fiume di vita; in questo contesto, Giovanni certamente ha pensato anche alla profezia di Ezechiele che vede sgorgare dal nuovo tempio un fiume che dona fecondità e vita (Ez 47): Gesù stesso è il tempio nuovo, e il suo cuore aperto è la sorgente dalla quale esce un fiume di vita nuova, che si comunica a noi nel Battesimo e nell'Eucaristia.
La liturgia della Solennità del Sacro Cuore di Gesù prevede, però, come canto di comunione anche un'altra parola, affine a questa, tratta dal Vangelo di Giovanni: Chi ha sete, venga a me. Beva chi crede in me. La Scrittura dice: "Sgorgheranno da lui fiumi d'acqua viva" (cfr. Gv 7, 37s). Nella fede beviamo, per così dire, dall'acqua viva della Parola di Dio. Così il credente diventa egli stesso una sorgente, dona alla terra assetata della storia acqua viva. Lo vediamo nei santi. Lo vediamo in Maria che, quale grande donna di fede e di amore, è diventata lungo i secoli sorgente di fede, amore e vita. Ogni cristiano e ogni sacerdote dovrebbero, a partire da Cristo, diventare sorgente che comunica vita agli altri. Noi dovremmo donare acqua della vita ad un mondo assetato. Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto il tuo cuore per noi; perché nella tua morte e nella tua risurrezione sei diventato fonte di vita. Fa' che siamo persone viventi, viventi dalla tua fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado di donare a questo nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del ministero sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo tempo che sono assetati e in ricerca. Amen.
(L'Osservatore Romano - 12 giugno 2010)
I saluti del Pontefice al termine della celebrazione
Con rinnovato slancio sul cammino della santificazione
Al termine della celebrazione, prima di impartire la benedizione conclusiva, il Papa ha salutato nelle varie lingue i presbiteri giunti dai cinque continenti per la conclusione dell'Anno sacerdotale.
Al termine di questa straordinaria concelebrazione, desidero esprimere la mia viva gratitudine alla Congregazione per il Clero, per l'opera svolta durante l'Anno Sacerdotale e per aver organizzato queste giornate conclusive. Un pensiero di speciale riconoscenza va ai Signori Cardinali ed ai Vescovi che hanno voluto essere presenti, in particolare a quanti sono venuti da lontano.
Chers prêtres francophones, vous avez une proximité particulière avec saint Jean-Marie Vianney. Je souhaite qu'elle devienne une véritable complicité spirituelle. Puisse son exemple sûr, vous inspirer afin que le don que vous avez fait de vous-même au Seigneur porte du bon fruit! Je vous renouvelle ma confiance et je vous encourage à progresser sur les chemins de la sainteté. Que le Seigneur vous garde tous en son Coeur très-aimant!
I now wish to greet all the English-speaking priests present at today's celebration! My dear brothers, as I thank you for your love of Christ and of his Bride the Church, I ask you again solemnly to be faithful to your promises. Serve God and your people with holiness and courage, and always conform your lives to the mystery of the Lord's cross. May God bless your apostolic labours abundantly!
Von ganzem Herzen grüße ich die Bischöfe, Priester und Ordensleute wie auch alle Pilger, die aus den Diözesen des deutschen Sprachraums zum Abschluß des Priesterjahres nach Rom gekommen sind, um ihre Einheit mit dem Nachfolger Petri zu zeigen. Liebe Mitbrüder, wo kein Zusammenhalt ist, da gibt es keinen Fortschritt. Wenn wir miteinander verbunden bleiben, wenn wir in Christus, dem wahren Weinstock, bleiben, dann können wir starke und lebendige Zeugen der Liebe und der Wahrheit sein, können uns die Winde des Augenblicks nicht verbiegen oder brechen. Christus ist die Wurzel, die uns trägt und uns Leben gibt. Danken wir dem Herrn für die Gnade des Priestertums; dafür, daß er uns jeden Tag neu Gelegenheit gibt, in seiner Nachfolge gute Hirten zu sein. Der Heilige Geist stärke euch bei all eurem Wirken!
Saludo cordialmente a los presbíteros de lengua española, y pido a Dios que esta celebración se convierta en un vigoroso impulso para seguir viviendo con gozo, humildad y esperanza su sacerdocio, siendo mensajeros audaces del Evangelio, ministros fieles de los Sacramentos y testigos elocuentes de la caridad. Con los sentimientos de Cristo, Buen Pastor, os invito a continuar aspirando cada día a la santidad, sabiendo que no hay mayor felicidad en este mundo que gastar la vida por la gloria de Dios y el bien de las almas.
Queridos sacerdotes dos países de língua oficial portuguesa, dou graças a Deus pelo que sois e pelo que fazeis, recordando a todos que nada jamais substituirá o ministério dos sacerdotes na vida da Igreja. A exemplo e sob o patrocínio do Santo Cura d'Ars, perseverai na amizade de Deus e deixai que as vossas mãos e os vossos lábios continuem a ser as mãos e os lábios de Cristo, único Redentor da humanidade. Bem hajam!
"Dobroc i laska pójda w slad za mna przez wszystkie dni mego zycia" (Ps 23 [22], 6). Tymi slowami Psalmu pozdrawiam polskich kaplanów. Drodzy Bracia, Chrystus Was wybral, wezwal, napelnil dobrocia i laska. Szczerym sercem podejmujcie kazdego dnia ten dar i niescie go z miloscia tym, do których zostaliscie poslani. Swietymi badzcie i prowadzcie innych do swietosci w Chrystusie. Niech Bóg wam blogoslawi!
["Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita" (Sal 23/22/, 6). Con queste parole del Salmo saluto i sacerdoti polacchi. Cari Fratelli, Cristo vi ha scelti, vi ha chiamati, vi ha colmati di bontà e di fedeltà. Con cuore sincero accogliete questo dono ogni giorno e portatelo con amore a coloro a cui siete stati mandati. Siate santi e portate gli altri alla santità in Cristo. Dio vi benedica!].
Rivolgo infine il mio cordiale saluto ai sacerdoti di Roma e d'Italia; come pure ai Presuli, ai sacerdoti e ai seminaristi di tutti i Riti delle Chiese Orientali cattoliche. So, infine, che in tutte le parti del mondo si sono tenuti moltissimi incontri celebrativi e spirituali con grande e fruttuosa partecipazione. Pertanto, desidero ringraziare Vescovi, sacerdoti e organizzatori ed auguro a tutti di proseguire con rinnovato slancio il cammino di santificazione in questo sacro ministero che il Signore vi ha affidato. Vi benedico tutti di cuore!
(L'Osservatore Romano - 12 giugno 2010)
Quindicimila preti
Quindicimila presbiteri in paramenti bianchi hanno concelebrato stamane con Benedetto XVI la messa di chiusura dell'Anno sacerdotale in piazza San Pietro. Nonostante il caldo, è stata un'eucaristia senza precedenti a Roma per numero di concelebranti.
Nella solennità del Sacratissimo cuore di Gesù, i preti presenti hanno rinnovato le promesse sacerdotali, come nella messa crismale del Giovedì santo.
Lo hanno fatto sotto l'immagine di san Giovanni Maria Vianney - che diversamente da quanto annunciato non è stato proclamato loro patrono - ritratta nel grande arazzo collocato sulla loggia centrale della basilica Vaticana. Provenienti da quasi cento Paesi, in rappresentanza dei confratelli di tutto il mondo, al termine della liturgia sono stati consacrati alla Vergine Maria. In ginocchio, Papa Ratzinger ha ripetuto le parole dell'atto di affidamento - usate durante il viaggio a Fátima - davanti all'originale della Madonna Salus populi Romani. L'immagine mariana è stata portata sul Sagrato di San Pietro dalla basilica di Santa Maria Maggiore che la custodisce.
Benedetto XVI è arrivato a bordo della papamobile, preceduto da una processione di oltre cinquanta cardinali. Tra loro il segretario di Stato Bertone, e il decano del Collegio cardinalizio Sodano. Lo accompagnavano gli arcivescovi Harvey, prefetto della Casa pontificia, e del Blanco Prieto, elemosiniere; il vescovo De Nicolò, reggente; i monsignori Gänswein, segretario particolare, e Xuereb, della Segreteria particolare.
Poco prima avevano fatto ingresso circa 350 presuli - tra i quali il sostituto Filoni - e le migliaia di prelati e di sacerdoti concelebranti. Tra questi ultimi il sotto-segretario per i rapporti con gli Stati Balestrero e il capo del Protocollo Nwachukwu.
Dopo aver raggiunto la cattedra, Benedetto XVI ha introdotto la celebrazione e il rito dell'asperges, come atto penitenziale durante il quale quattro porporati dell'ordine dei vescovi hanno asperso l'assemblea con l'acqua benedetta, per richiamare il sangue e l'acqua sgorgati dal cuore del Signore come segni di salvezza e di purificazione.
A motivo del loro carisma vocazionale, il servizio liturgico è stato svolto da seminaristi rogazionisti. Particolarmente suggestivo il momento della comunione, svoltosi in un'atmosfera di silenzioso raccoglimento: prima che centinaia tra preti e diaconi distribuissero il sacramento alla grande folla di fedeli presenti, Benedetto XVI ha elevato il calice usato da Giovanni Maria Vianney. È stato fatto giungere appositamente dalla parrocchia di Ars, per ribadire come la figura del santo curato, nel 150° della morte, sia stata al centro di questo speciale Anno per i sacerdoti.
(L'Osservatore Romano - 12 giugno 2010)
La veglia di preghiera di giovedì sera
Testimoni dello scandalo della fede
di fronte al mondo
Attività pastorale, teologia, celibato, culto e vocazioni. Sono i temi toccati da Benedetto XVI nel corso della veglia di preghiera svoltasi giovedì sera, 10 giugno, in piazza San Pietro. Il Papa li ha approfonditi rispondendo a cinque domande poste da altrettanti sacerdoti provenienti dai diversi continenti.
La prima è stata del brasiliano don José Eduardo Oliveira, che ha chiesto indicazioni su come affrontare le difficoltà che i parroci incontrano nel loro ministero. Il Pontefice ha riconosciuto che oggi è molto difficile essere parroco, anche e soprattutto nei Paesi dell'antica cristianità. Le parrocchie diventano sempre più estese: è impossibile conoscere tutti, è impossibile adempiere a tutti i compiti spettanti a un parroco. A questo proposito, il Papa ha sottolineato come sia importante che i fedeli vedano nel prete non solo uno che lavora, ma un appassionato di Cristo, pieno della gioia del Signore. Essere pieni della gioia del Vangelo è, infatti, la prima condizione necessaria. A essa seguono tre priorità: l'Eucaristia e i sacramenti, l'annuncio della Parola e la caritas, l'amore di Cristo. Oltre a queste tre priorità, ce n'è un'altra molto importante: la relazione personale con Cristo. Il Papa ha ricordato un testo di san Carlo Borromeo nel quale si invitano i sacerdoti a non trascurare la propria anima, perché - argomentava l'arcivescovo di Milano - se l'anima viene trascurata è impossibile dare agli altri quanto si dovrebbe dare. L'anima ha bisogno che le venga dedicato del tempo. Con altre parole, ha detto il Pontefice, la relazione con Cristo e il colloquio personale con Lui sono una priorità pastorale fondamentale, una condizione per il lavoro del prete a beneficio degli altri. E la preghiera non è una cosa marginale: è proprio del sacerdote pregare, anche come rappresentante della gente che non sa pregare o non trova il tempo di pregare. La preghiera personale soprattutto, ha evidenziato il Papa, è il nutrimento fondamentale per l'anima del prete e per la sua azione.
Successivamente Mathias Agnero, proveniente dalla Costa d'Avorio, ha chiesto al Pontefice spiegazioni sulla frattura tra teologia e dottrina, evidenziando l'esigenza che lo studio non allontani, ma alimenti la spiritualità. Benedetto XVI ha riconosciuto l'esistenza di una teologia che è arroganza della ragione e non nutre la fede, ma oscura la presenza di Dio nel mondo. Al contrario, c'è una teologia che vuol conoscere di più per amore dell'amato. Il Papa ha invitato i teologi ad avere coraggio, a non aver paura del fantasma della scientificità, a non sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, ma piuttosto a pensare alla grande fede della Chiesa che è presente in tutti i tempi e apre alla verità. A una ragione debole, che accetta solo le cose sperimentabili, il Pontefice ha contrapposto una ragione grande, che ha il coraggio di andare oltre il positivismo e l'esperimento. Infine, il Papa ha sottolineato l'importanza del Catechismo della Chiesa Cattolica, nel quale si trova la sintesi della fede. Esso è veramente il criterio alla luce del quale si può valutare se una teologia è accettabile o non accettabile.
Lo slovacco don Darol Miklosko ha sollecitato poi Benedetto XVI a parlare del celibato anche di fronte alle critiche del mondo. Il Pontefice ha ricordato che il celibato è un'anticipazione della vita nuova, resa possibile dalla grazia e dalla risurrezione di Cristo. A questo proposito, il Papa ha detto che un grande problema della cristianità, del mondo di oggi, è che non si pensa più al futuro di Dio. Sembra sufficiente solo il presente di questo mondo. L'uomo aspira ad avere solo questo mondo, a vivere solo in questo mondo. E così chiude le porte alla vera grandezza della sua esistenza. Il senso del celibato come anticipazione del futuro, ha aggiunto, è proprio aprire queste porte, rendere più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già come presente. Si tratta quindi di vivere una testimonianza di fede: crediamo realmente che Dio c'è, che Dio c'entra nella nostra vita, che possiamo fondare la nostra vita su Cristo, sulla vita futura. Riguardo alle critiche del mondo, il Pontefice ha detto che per chi non crede il celibato è un grande scandalo, perché mostra che il Signore va considerato come realtà e vissuto come realtà. Si tratta, ha affermato, di un grande segno della fede, della presenza di Dio nel mondo. Il celibato è un sì definitivo, un lasciarsi prendere per mano da Dio, un darsi nelle mani del Signore. Si tratta perciò di un atto di fedeltà e di fiducia, così come il matrimonio, che rappresenta la forma naturale dell'essere uomo e donna, il fondamento della cultura cristiana e delle grandi culture del mondo: se esso scompare - ha ammonito il Pontefice - va distrutta la radice della nostra cultura. Perciò il celibato conferma il sì del matrimonio con il suo sì al mondo futuro. Da qui l'appello di Benedetto XVI a superare gli scandali secondari, provocati da insufficienze e peccati dei sacerdoti, per mostrare al mondo il grande scandalo della fede.
Il giapponese don Atsushi Yamashita ha chiesto indicazioni su come vivere il culto senza cadere nel clericalismo ed estraniarsi dalla realtà. Benedetto XVI ha ricordato come il compito dei cristiani è l'essere uniti dall'amore di Cristo nell'unico corpo di Cristo: uscire da se stessi, lasciarsi attirare nella comunione dell'unico pane e dell'unico corpo, e così entrare nella grande avventura dell'amore di Dio. In questo senso, si deve celebrare, vivere, meditare l'Eucaristia come scuola della liberazione dal proprio io: essa, ha concluso il Pontefice, è il contrario del clericalismo, della chiusura in se stessi. Vivere l'Eucaristia nel suo senso originario, nella sua vera profondità, diventa così una scuola di vita e la più sicura protezione contro ogni tentazione di clericalismo.
Infine, l'australiano don Anthony Denton ha invitato Benedetto XVI a esprimere il suo pensiero sulla mancanza delle vocazioni. La tentazione più grande - ha detto il Pontefice - è quella di trasformare il sacerdozio, il sacramento di Cristo, in una normale professione, che ha il suo orario e i suoi tempi. In questo modo si cerca di renderlo più attraente e accessibile. Ma questa è una tentazione che non risolve il problema. Il Papa, allora, ha indicato tre direttrici di impegno: fare il possibile per vivere il suo sacerdozio così da essere convincente; dedicarsi alla preghiera; avere il coraggio di stare e comunicare con i giovani, per aprire il loro cuore all'ascolto della vocazione divina. Il Papa ha sottolineato l'importanza di parlare con loro e soprattutto di aiutarli a trovare un contesto vitale dove possano vivere la vocazione.
La veglia di preghiera era stata introdotta dall'arcivescovo Mauro Piacenza, segretario della Congregazione per il Clero, il quale aveva sottolineato la presenza di tanti sacerdoti intorno al Papa come una sorta di cenacolo, nel quale lo Spirito "rinnoverà, rinvigorendoli, i doni ricevuti nell'ordinazione sacerdotale".
Prima dell'inizio della veglia, il cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, aveva salutato Benedetto XVI a nome di tutti i sacerdoti presenti. "Vorremmo - aveva detto il porporato - che l'Anno sacerdotale non finisse mai, cioè che non finisse mai la tensione di ciascuno verso la santità nella propria identità e che in questo cammino, che deve iniziare fin dagli anni del seminario, per durare tutta l'esistenza terrena in un unico iter formativo, fossimo sempre confortati e sostenuti, come in quest'anno, dall'ininterrotta preghiera della Chiesa, dal calore e dal sostegno spirituale di tutti i fedeli, i quali, proprio con la loro fede nell'efficacia del ministero sacerdotale, sono così spesso di richiamo e di profondo conforto per ciascuno".
Prima dell'arrivo del Papa in piazza San Pietro, vi erano stati quattro collegamenti. Il primo con Ars, da dove padre René Lavaur aveva offerto la sua testimonianza di parroco. Il secondo con il Cenacolo a Gerusalemme, con il vescovo ausiliare William Shomali che aveva parlato della centralità dell'Eucaristia nella vita del prete. Il terzo collegamento era stato da un barrio di Buenos Aires, dove svolge il suo ministero tra la gente padre José María di Paola, vicario episcopale della diocesi. Ultimo collegamento da Hollywood, dove il parroco monsignor Antonio Cacciapuoti aveva raccontato la sua esperienza pastorale.
Erano state presentate anche quattro testimonianze. La prima, della famiglia tedesca Heereman, con sei figli: un sacerdote, un religioso, una vergine consacrata, due sposati e una nubile. La seconda di Giuseppe Falabella, diacono della diocesi di Roma, alla vigilia dell'ordinazione. La terza di monsignor Giacomo Marchesan, vicario del patriarcato di Venezia per la vita consacrata. L'ultima di suor Maria Gloria Riva, delle adoratrici perpetue del Santissimo Sacramento, che aveva parlato dell'importanza della maternità spirituale.
Al termine, Benedetto XVI ha compiuto il giro della piazza in papamobile e ha concluso la veglia con la benedizione solenne dell'Eucaristia.
(L'Osservatore Romano - 12 giugno 2010)
Il sacramento e la sete del mondo
Chi pensava all'anno sacerdotale appena concluso come all'ennesima invenzione celebrativa, di poca sostanza se non addirittura inutile, deve ricredersi di fronte ai due interventi di Benedetto XVI che nel chiuderlo ne hanno mostrato il senso profondo. Testi davvero importanti, di un Papa che è teologo e pastore come pochi suoi predecessori hanno saputo essere, al punto da richiamare alla memoria grandi vescovi dell'antichità cristiana, intellettuale e uomo di fede, che da oltre un sessantennio segue la teologia e sa parlare il linguaggio del nostro tempo.
Di fronte a un numero senza precedenti di preti che hanno potuto concelebrare con il successore di Pietro, il vescovo di Roma ha parlato del sacerdozio cattolico. Che non è una professione come le altre, non una casta chiusa né una realtà clericale, ma un sacramento. Segno cioè di una realtà infinitamente più grande, il sacerdozio è per questo motivo aperto al mondo. Lontano da ogni clericalismo perché ha gli occhi fissi sul cuore di Gesù, squarciato dal colpo di lancia del soldato e da cui scaturiscono acqua e sangue, simboli del battesimo e dell'eucaristia che spalancano le realtà di questo mondo a Dio.
L'anno dedicato al sacerdozio, occasione di riflettere e di farlo di nuovo brillare davanti agli uomini, non è piaciuto al "nemico" - c'era d'aspettarselo, ha sottolineato il Papa - ed ecco allora emergere gli scandali dei peccati dei sacerdoti, soprattutto gli orribili abusi dei piccoli. Per questi delitti con umiltà Benedetto XVI ha di nuovo chiesto perdono a Dio e alle vittime, senza recriminazioni o amarezze, ma sottolineando il compito di purificazione ormai avviato e che sarà lungo. Nella consapevolezza che questi scandali hanno oscurato il volto autentico della Chiesa, una realtà di cui lo stesso mondo secolarizzato ha nostalgia, come in parte indica lo stesso scandalo di fronte a questi veri e propri crimini.
Anche le donne e gli uomini di oggi sentono, magari oscuramente, il bisogno di chi può davvero cambiare la situazione della nostra vita pronunciando in nome di Cristo parole che assolvono dai peccati e aprono a Dio. Questo è il senso del sacramento: della penitenza, dell'eucaristia, dello stesso sacerdozio, che sono segni visibili in cui si nasconde l'audacia di un Dio che si affida a mani umane. E chi guarda al cuore di Gesù capisce che questo Dio non è un Dio lontano, ma è come un pastore che può insegnare - se soltanto si è disposti ad ascoltarlo - a essere persone, per non sprecare la vita nella mancanza di senso.
Guardando con lucidità ma senza pessimismi allo smarrimento contemporaneo e all'inesorabile destino di ogni creatura - la "valle oscura della morte dove nessuno ci accompagnerà" - Benedetto XVI ha ancora una volta levato lo sguardo a Cristo: ripetendo l'annuncio gioioso della Chiesa che il Signore è risalito dagli inferi e lì ha sottomesso l'ultimo nemico, e che egli, il vincitore della morte, è vicino a ognuno nelle "valli tenebrose" della vita, anche quando ogni luce sembra spegnersi.
Davanti a comportamenti indegni del sacramento sacerdotale - come davanti all'eresia e al disfacimento della fede - "la Chiesa deve usare il bastone del pastore", ha detto con forza il Papa. Aggiungendo che questo può essere "un servizio di amore" e che il bastone è anche "vincastro", sostegno di fronte alle difficoltà del cammino. E che soprattutto addita agli uomini il cuore di Cristo, unica sorgente di acqua viva che può dissetare il mondo.
g. m. v.
(L'Osservatore Romano - 12 giugno 2010)
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