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    NEL DESERTO SAZIATI DI PANE

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    Messaggio Da tina Mer 30 Set 2009, 16:51

    In quei giorni si radunò di nuovo una gran folla; e la gente non aveva da mangiare. Gesù chiamò i suoi discepoli e disse: 2«Ho pietà di questa folla; sono già tre giorni che stanno con me e non hanno da mangiare. 3Se li rimando a casa digiuni, svengono per strada, e ce ne sono di quelli venuti da lontano!». 4I suoi discepoli gli risposero: «Come si potrebbe qui, in zona disabitata, saziarli di pane?». 5Egli domandò: «Quanti pani avete?». Gli risposero: «Sette». 6Ordinò allora alla folla di sedersi per terra; poi, prendendo i sette pani disse grazie, li spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. 7Avevano pochi pesciolini; benedetti anche quelli, ordinò che li distribuissero. 8Mangiarono a sazietà, e dei pezzi avanzati, raccolsero sette ceste. 9Erano circa quattromila, poi li congedò.
    (Mc 8,1-9)

    Ecco la seconda moltiplicazione dei pani nel Vangelo di San Marco. La prima al capitolo 6° e questa al capitolo 8°, ciascuna con una differente punta teologica.

    Gesù dice delle parole stupende: «Ho pietà di questa folla!». Pietà vuol dire misericordia. Risuona nel Cuore di Gesù tutta l’angoscia, il dolore, la miseria del cuore umano. Il suo Cuore è come una specie di cassa di risonanza ed è logorato dalla sofferenza degli altri.

    «Sono già tre giorni che stanno con me (una specie di Esercizi spirituali: tre giorni); non hanno di che mangiare. Se li rimando a casa digiuni svengono per la strada». La strada! Il popolo cristiano è pellegrino. Noi siamo avviati verso la Patria. Qui si può vedere e leggere in filigrana, l’episodio di Elia e del pane misterioso che lo nutre fino al monte di Dio.

    IL TEMA DEL DESERTO
    «Come si potrebbe qui in zona disabitata, nel deserto, saziarli di pane?». Il tema del deserto è un tema privilegiato. Mosè, l’uomo dell’alleanza, incontrò e riconobbe Dio per la prima volta nella fiamma ardente del roveto incandescente nel deserto.

    Nel deserto, in zona disabitata nella steppa, per 40 anni di tenerezza e di pazienza, Dio educò il suo popolo, lo guidò mediante la nuvola luminosa, lo nutrì della manna celeste, lo dissetò con l’acqua della roccia, gli rivelò la sua Legge, nella solitudine fiammeggiante del monte Sinai. È lì che il Signore ricevette dal suo popolo i primi sacrifici.

    Carattere sacro del deserto! Il ciclo del profeta Elia rinnoverà in qualche maniera tutte queste gesta, tutti questi avvenimenti dell’Esodo. Per Elia sarà un ritorno alle sorgenti; cioè Elia rifarà a ritroso la strada percorsa un tempo da Israele, e come Israele verrà anche lui nutrito di un pane miracoloso (dice il libro dei Re). Sostenuto da questo nutrimento camminerà 40 giorni e 40 notti fino alla montagna di Dio, e lì incontrerà di nuovo il Dio dell’Esodo.

    Per indicare la conversione di Israele i profeti d’istinto citeranno gli spunti e le immagini di quest’epoca meravigliosa. La conversione d’Israele sarà di nuovo un Esodo, in cui il Signore rinnoverà il suo amore del tempo del fidanzamento.

    Il profeta Osea dice: «È per questo che io la voglio affascinare (parla di Israele rappresentata come sposa), la voglio condurre nel deserto e lì parlerò al suo cuore. Le restituirò le sue vigne e farò della valle di Acor (la valle del lutto, del dolore, dell’infelicità attraverso cui dovettero passare gli Israeliti per entrare nella terra promessa) una porta di speranza. Si mostrerà docile e obbediente come nel tempo della sua giovinezza, come nel tempo che salì al paese dell’Egitto. In quel giorno - oracolo di Jahvé - essa mi chiamerà "mio sposo"!» (cfr. Osea 2,16-25).

    Il tema del deserto ricorre anche negli scritti del dopo esilio di Babilonia per descrivere il ritorno del popolo disperso a Gerusalemme. Il deserto però che separa Babilonia da Gerusalemme non è quello della penisola sinaitica; ma questo poco importa.

    Il deserto, zona stepposa, disabitata, è il simbolo del ritorno; è come il centro di raduno, il punto di convergenza del popolo di Dio. È il cammino pieno di promesse, attraverso il quale Dio riconduce Israele nella Terra promessa. «Una voce grida: Preparate nel deserto una strada per il Signore; tracciate diritto nella steppa un cammino per il nostro Dio». E attraverso il deserto, la cui solitudine un giorno rifiorirà, Israele ritorna a casa sua, a Gerusalemme, e la gloria luminosa di Dio proteggerà ancora il suo cammino.

    Dice il Deutero-Isaia: «Si rallegri il deserto e la terra arida; esulti e fiorisca la steppa; porti fiori come di giunchiglia, esulti e si ammanti di gioia, poiché vedrà la gloria di Dio, lo splendore del nostro Dio».

    C’è da ricordare che "la Bellissima" del Cantico dei Cantici (la Chiesa-Sposa) giunge e arriva dal deserto, appoggiata sul Dilettissimo (il Diletto è Gesù).

    Il libro dell’Esodo per il popolo ebreo rappresentava, con tutte le sue meraviglie dall’uscita dall’Egitto fino al guado del Giordano, quello che per i cristiani rappresenta la vita di Gesù. È perciò chiamato "il Vangelo dell’Antico Testamento".

    Nel Nuovo Testamento, quando Giovanni Battista inizia la sua predicazione, gli evangelisti sinottici annotano la realizzazione del libro di Isaia: «Ecco la voce di colui che grida: Nel deserto preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri». Il Nuovo Testamento si trova così preparato dall’Antico.

    San Paolo afferma che gli avvenimenti dell’Esodo prefiguravano le realtà cristiane. Dirà con chiarezza: «Erano dei tipi, cioè delle immagini di tutto ciò che sarebbe accaduto».

    San Luca riferendo il discorso di Stefano, parlerà senz’altro della Chiesa del deserto (cfr. il capitolo 7° degli Atti al versetto 38).

    La vita stessa di Gesù è marcata da questa tipologia. Pensate ai 40 giorni della tentazione nel deserto - che ricordano manifestamente i 40 anni dell’Esodo - in cui Gesù rivisse misteriosamente le prove stesse del suo popolo, ma soprattutto al mistero della sua morte, che è chiamata da Luca il "suo esodo", cioè quell’agonia liberatrice che diverrà la nostra Pasqua, cioè il passaggio da questo mondo al Padre.

    Il tema del deserto nella Sacra Scrittura ricorre continuamente: richiama la solitudine, il silenzio di Dio. È lì che Dio parla al cuore. Occorre rientrare in se stessi, svuotarsi di tutto ciò che distrae, scendere nelle grandi realtà, contemplare l’inabitazione dei Tre nell’anima nostra.

    IL TEMA DEL PANE EUCARISTICO
    Un secondo tema: il tema del Pane Eucaristico.

    Nell’Apocalisse, al capitolo 12, si parla della Donna vestita di sole; le sono date «le due ali della grande aquila (la Donna è Maria ed è la Chiesa) per volare verso il posto nel deserto in cui deve essere nutrita». Ci sarebbe da sottolineare la spiritualità dei figli di Maria, chiaramente descritta nell’Apocalisse al capitolo 12, e in maniera particolare delle figlie di Maria: spiritualità essenzialmente eucaristica, di silenzio, di contemplazione, di attività, di sacrificio, di testimonianza, di amore alla parola del Signore.

    Uno dei prodigi tipici dell’Esodo è senza dubbio quello della manna. Per 40 anni il Signore nutre miracolosamente il suo popolo col Pane del Cielo. Ogni volta che Israele canterà dell’epopea dell’Esodo, citerà sempre con orgoglio e con fierezza quella meraviglia.

    Il Salmo 78 dice: «Per nutrirli fece piovere dal cielo la manna, dette loro il frumento dei cieli; col pane dei forti l’uomo si nutrì». E ancora: «Li sazierò col Pane dei cieli».

    Durante la sua lunga storia, Israele cercherà di penetrare il senso misterioso di questo cibo celeste. Il Deuteronomio arriva a questa conclusione: «Il Signore tuo Dio ti ha nutrito con la manna che tu non conoscevi e che non avevano conosciuto i tuoi padri, per insegnarti che l’uomo non vive soltanto di pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». Frase che Gesù citerà contro il demonio. La manna era dunque non soltanto un cibo, ma anche una parabola, significava cioè che anche la Parola di Dio, saziando i corpi, nutriva le anime. Dio nutriva il suo popolo. Il suo popolo doveva nutrirsi di tutto ciò, di ogni parola che usciva dalla bocca di Dio. Il conservare, il fare tesoro di questa parola voleva dire "vivere". Il trascurare, l’abbandonare questa parola, voleva dire "morire".

    «Ah, se il mio popolo - dice un Salmo - ascoltasse! Se Israele camminasse nelle mie vie! Io l’avrei nutrito con fiore di frumento, l’avrei saziato col miele dalla roccia».

    Quando Israele è fedele, Dio lo nutre. Allora le sue messi si moltiplicano, le sue greggi prosperano, le sue viti e i suoi alberi fioriscono. Ma Dio lo colpisce con la carestia, con la fame, con la sventura, quando si dimostra infedele. Si potrebbe dire che Dio nutre il suo popolo nella misura in cui il suo popolo si nutre della sua parola.

    Nel libro della Sapienza scopriamo un significato nuovo della manna: quello della tenerezza e della dolcezza di Dio. «Tu hai dato al tuo popolo un nutrimento di angeli». Instancabilmente viene mandato dal Cielo un pane preparato, capace di procurare tutte le delizie e di soddisfare tutti i gusti.

    È Gesù il vero Pane del Cielo!

    Nel miracolo della moltiplicazione dei pani vi è un accenno; Gesù nel discorso di Cafarnao lo esprimerà chiaramente: «Io sono il pane vero! I vostri padri hanno mangiato la manna e morirono. Sono Io il vero pane disceso dal cielo. Non è come quello che i vostri padri hanno mangiato. Chi mangia questo pane vivrà per sempre» (Gv 6,49-51).

    La storia dell’Esodo si prolunga nel Nuovo Testamento. Dio ancora nutre il suo popolo che è in cammino verso la Terra promessa, ma lo nutre con la carne e il sangue del suo Figlio.

    La realtà divina adesso sorpassa immensamente il simbolo, la figura, che era la manna. La manna sfamava da un giorno all’altro e teneva in vita i pellegrini che erano avviati verso la Terra Promessa, smorzava la fame di ogni giorno, ma non la fame di eternità. La manna nuova che è Gesù, invece, sazia per l’eternità, è viva ed è edificante. La sua potenza di vita si estende non solamente alle anime, ma anche al corpo. Immette nel corpo il germe della risurrezione. Da passibili, corruttibili, mortali, rende i nostri corpi gloriosi, divini, immortali.

    Gesù è anche la parola viva e vivificante che il Padre dice agli uomini. Ascoltare questa parola, conservarla, farne tesoro, credere in questa parola, vuol dire nutrirsene, vivere. «Colui che crede in me - dice Gesù - (il testo greco dice di più: «verso di me», per esprimere tutto il dinamismo della fede, lo slancio della fede) ha la vita eterna. Lavorate non per il nutrimento che perisce, ma per il cibo che rimane in vita eterna, quello che il Figlio dell’uomo vi dirà, perché è Lui che Dio ha segnato con il suo sigillo» (Gv 6, 27-29). Dunque, nell’economia antica il Signore nutriva il suo popolo con la sua parola e con la manna nel deserto. Nell’economia nuova, il Padre celeste nutre la Chiesa con la Parola di Cristo, Verbo fatto carne, e con il Cristo Eucaristico.

    Qui Maria precede la Chiesa perché: «Te beata che hai creduto!». Visse di fede. «Conservava nel cuore la parola del Signore!». Fu l’anima più essenzialmente eucaristica di tutte, un’anima silenziosa; viveva nel deserto, nella contemplazione continua di Dio. Adoratrice fino all’infinito di quel mistero di vita trinitaria che si svolgeva in Lei. Contemplativa pur nella vita attiva.



    Il 10 dicembre 1969 a Bangkok, in Tailandia, moriva Thomas Merton, uno dei monaci più rappresentativi del tempo. Una persona che a Bangkok l’avvicinò di più scrisse, subito dopo la sua morte (i giornalisti tailandesi dissero che era morto di una crisi cardiaca; i giornali americani di una scarica elettrica): «Rimasi colpito dai suoi occhi di bimbo puro. E come disse un poeta: Io vedo nei suoi occhi, tra i fiori di questa primavera, innalzarsi la chiamata della morte, come un giglio solenne. Già l’inverno è passato! E non fu l’unica persona ad essere colpita da questa morte. «La sua ora era venuta. Il nostro amico è morto. Colui che noi abbiamo conosciuto è morto. Era venuto per morire tra noi. Dio l’ha voluto. Sia benedetto il Signore, tre volte benedetto. Thomas Merton vive».

    Vedevo nei suoi occhi, tra i fiori di questa primavera, innalzarsi la chiamata della morte, come un giglio solenne!

    La stessa cosa si vede, per esempio, negli occhi così limpidi, così luminosi di Madre Angela, che già si sta spegnendo. Diceva qualche giorno fa: «Soffro molto, ma ho tanta gioia».

    È nella solitudine che si prepara l’eternità. Nel silenzio, nell’adorazione e cibandosi di Gesù.



    Questa mattina, alle 10,30, alla Messa, venne a fare la Comunione una famigliola: il papà con tre bimbetti di due, tre, quattro anni; li teneva per mano; la mamma con un bimbo di pochi mesi. Il piccino, quando vide la particola, allungò le manine, la voleva afferrare; si volse alla mamma, gliela voleva strappare, e la mamma lo teneva buono. Babbo e mamma si nutrivano di Gesù e quei bimbi sentivano il profumo interiore che ne sprigionava.
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